Un mezzo di locomozione sempre più autonomo e veloce. Ci si acculturava. Si lottava per ottenere un titolo di studio per i figli. Ci si
batteva per trasformare la città chiusa, spesso
ostile, in una città nuova dove l’operaio, nella
periferia, avesse gli stessi diritti della borghesia
che viveva in zone centrali più pregiate.
Negli altiforni di Bagnoli o di Sesto San
Giovanni, come nel petrolchimico di Marghera,
si entrava ragazzi e si andava in pensione pochi
mesi prima di morire. (Quando non si moriva
durante il lavoro). Gli ambienti di lavoro, tutti,
anche quelli meno stressanti, erano poco salubri.
Il riscatto sociale valeva di più della vita stessa.
Lo “sviluppo” aveva nei sindacati e nei sindaci i
protettori ad oltranza. Per i sindacati è facile
capire il perché della loro presenza organizzativa.
Per i sindaci un pò meno. Allargare le zone industriali,
espandere la città, costruire pochi servizi,
non ha mai contribuito alla salvaguardia dell’ambiente,
non ha fatto aumentare il benessere.
Lo stesso sviluppo non è stato favorito dalla presenza
di queste aree. Tanto le industrie si costruivano
sia con un piano regolatore operante e con
zone
industriali
attrezzate, sia
senza piano in
aperta campagna e
senza opere di urbanizzazione. I sindacati sono
stati insostituibili nell’affrontare il riscatto culturale
ed economico della classe operaia. Non
altrettanto nel salvaguardare il territorio. Si dice
e si sostiene: guai, per Venezia, se negli anni ’50
e ’60 non ci fosse stata la classe operaia del
petrolchimico.
Le contesse di Italia Nostra sono
morte come il loro acerrimo nemico, Wladimiro
Dorigo. Avevano torto, a parere mio, le une e
l’altro. Venezia, la città storica, ha sempre affidato
il suo futuro ad una deflagrante contraddizione.
“stato de mar e stato de tera”, ieri l’altro.
Città d’arte e città industriale, ieri.
Conservazione e sviluppo liberista della modernità;
MOSE e il restauro della Laguna, oggi.
Nel rapporto di Caroline Fletcher (chimica) e
Jane da Mosto “tecnologa” (responsabile di
CORILA, Consorzio voluto dall’Amministrazione
comunale), rapporto dal titolo “La scienza per
Venezia”, si afferma che la città più bella del
mondo ha i giorni contati. “La frequenza dell’acqua
alta è in aumento e oggi Venezia non è
in grado di difendersi da un evento catastrofico
più di quanto non lo fosse quando subì la grande
alluvione del 1966”. Della sua fine ricorrente
e dell’acqua alta sempre più frequente, si è parlato
tanto fino a creare assuefazione. La questione
del “MOSE” ha infuocato opposte fazioni. C’è
chi lo ritiene indispensabile e chi invece lo considera
un grave danno.
Assorbirà le risorse necessarie
per risanare la laguna, per intervenire in
modo appropriato con il ripristino delle barene e
un insieme di opere tese alla salvaguardia di un
ecosistema unico al mondo. Ed è ampiamente il problema.
Adesso i lavori del Mose
sono iniziati e in alcune aree lagunari si
stanno facendo timide opere di ripristino.
Nonostante i restauri e i nuovi
interventi – entrambi da eseguire in
modo sperimentale, spiegano le autrici
– da aggiustare in corso d’opera, soprattutto
il Mose, il futuro resta incerto. La
città scende, il mare sale.
Confrontando i livelli dell’acqua del
XVIII e del XX secolo, emergono clamorose
differenze. Basta guardare un
particolare della Punta della Dogana
disegnato/dipinto da Canaletto, con
una foto presa dallo stesso punto di
vista. “La pavimentazione è stata rialzata,
ma il livello dell’acqua è più alto.
L’aumento calcolato è di 70–110 mm
in due secoli”. Emergono altre considerazioni
inquietanti. Il livello medio del
mare potrebbe alzarsi ulteriormente
nei prossimi anni. Il costo del MOSE è
iperbolico. Alla fine sarà il doppio o il
triplo di quello che è stato preventivato.
Gli appalti si sa si gonfiano in corso
d’opera, Non si ha la certezza che risolva
il problema. In ogni caso bisognerà
modificare il progetto dopo l’appalto, e
tuttavia – si sostiene – deve essere
costruito. Occorre, si insiste, intervenire
con tutti i mezzi. Tutti? Bastano
quelli economici.
Sulla profondità dei principali canali di
navigazione, ad esempio, due anni fa si
lasciava perdere. Si affermava che i
sedimenti dei bassifondi sono portati
in sospensione dalle correnti create nei
canali profondi (quello dei petroli)
dove si ridepositano per essere subito
dispersi e sospinti in mare aperto.
Interrare i canali, si sottolineava, rallenterebbe
la dispersione dell’acqua
che entra in laguna durante la marea.
Ma non si può. Questi canali sono
attraversati da un importante traffico
di navi diretto o proveniente da porto
Marghera; “il loro sfruttamento commerciale
è interesse di molti”.
Alle proteste
dei cosiddetti “verdi”, i partigiani
del MOSE affermavano che l’interramento
dei canali avrebbe scarsa rilevanza
rispetto all’acqua alta. Il risanamento
della laguna, poi, un’utopia. Il
MOSE SI/MOSE NO stato un ping pong
politico culturale fino a quando il
Governo ha deciso di finanziarlo. A
lavori assicurati l’utopia del risanamento
della laguna si è rivelata un formidabile
nuovo businnes.
Forse si riesce a restaurare tutta la laguna
sistemando il materiale di scavo, di
risulta dalla costruzione del MOSE. E’
l’uovo di colombo. Sistemare adeguatamente
la laguna significa trasferire
altrove le attività residue di Marghera.
In particolare quelle produttive. Così si
ottengono altri finanziamenti. “Altro”
nel senso di diverso sviluppo dello sviluppo.
Non a caso diffuso è il convincimento che un nuovo rinascimento sia
alle porte.
O addirittura già iniziato. I
finanziamenti pubblici per MOSE e
restauro lagunare fanno da lievito ai
ricavi privati con la riconversione delle
aree dismesse di Marghera.
Marghera può cambiare e diventare una
risorsa importantissima, portatrice di sviluppo,
di crescita economica, di occupazione
di qualità, di eccellenza tecnologica, di
innovazione, da mostrare come modello su
cui costruire un futuro dove la considerazione
dell’uomo e del suo habitat corrono
di pari passo con il progresso economico.
Ricomincia la grande illusione. Non più
l’industria, lo sviluppo che sporca e
che uccide, ma lo sviluppo sostenibile
delle nuove e innovative tecnologie.
Eliminare il tessuto produttivo che
sta alla base della economia di questo
territorio significherebbe privarlo
della sua più grande risorsa, condannarlo
all’impoverimento, alla scomparsa.
Le prospettive per il futuro, invece,
possono essere ben diverse: un POLO TECNOLOGICO
all’avanguardia a livello
europeo, capace di attrarre nuova e qualificata
occupazione oltre a investimenti per
la ricerca, per lo sviluppo di soluzioni innovative
esportabili anche in altre realtà e
altri contesti. Il polo industriale di Marghera vivrà e
cambierà radicalmente volto… finalmente
l’Eldorado. Per far questo si deve
garantire volontà politica e reperire
ingenti risorse finanziarie. Per restaurare
e innovare. Per sperimentare e consolidare
opposte certezze.
Nel corso dei secoli i veneziani hanno sempre avuto attrazione e repulsione
per l’acqua.
Nostalgia per la (perduta)
supremazia marittima – stato de mar,
prima – e fatale propensione per la terraferma.
Meno pericolosa e ugualmente
redditizia. Stato de mar e de tera,
dopo.
Quando i commerci marittimi
non rendevano più.
Nel XX secolo l’acqua è intesa quale
elemento fortemente negativo.
E’ un
ostacolo, da superare eliminandola.
Tombamento dei canali, isole artificiali,
zone industriali, sfollamento verso la
terra ferma. Ma è anche una risorsa.
Senza acqua dimezzerebbe la sua bellezza
(come scrive Iosif Brodskij parafrasando
John Rusckin) e in particolare
la ricchezza che le procura il turismo,
sfruttando anche l’acqua alta.
Ecco
allora il restauro delle barene, il ripristino
dell’ambiente lagunare e l’anacronistico
faraonico (e inutile) MOSE. Il
restauro della Fenice e il nuovo Ponte
di Calatrava, il ripristino dei fondali del
canale dei petroli e il recupero della
laguna e il nuovo Polo Tecnologico a
Marghera, il nuovo centro direzionale
al Tronchetto... e gli appartamenti della
città storica trasformati in locanda.
Bisogna garantire futuro e passato.
Reperire ingenti risorse finanziarie. Fin
tanto che l’acqua cesserà di essere un
pericolo (perché sarà tutta prosciugata?)
e il futuro un lontano ricordo.
Lo sviluppo sostenibile di Marghera –
nel significato che da polo industriale
si trasformerà in polo tecnologico – è
già iniziato. E’ ancora modesto.
Tutt’altro che innovativo. Solo qualche
nuova costruzione che ha sostituito
vecchie fabbriche. E’ iniziato questo
futuro anche a Bagnoli dove ci si affida
alla sostenibilità dell’innovazione tecnologica
con lo stesso convincimento e
lo stesso coinvolgimento della sua
improcrastinabile realizzazione. Poco o
nulla si è fatto anche nel sud ovest e
poco o nulla si farà. Ovvero non è che
a Bagnoli come a Marghera ci sia il
blocco delle costruzioni. Ma i poli
tecnologici possono attendere. Come il
paradiso. Prima bisogna disinquinare.
E disinquinare costa. E più costa più
aumentano le cubature delle nuove
costruzioni.
Come a Milano o a Sesto
San Giovanni o a Bagnoli. Ma i centri
industriali richiedevano masse di operai.
I poli tecnologici invece sono frequentati
da un numero limitato di
addetti. Ho la sensazione che il meccanismo
possa incepparsi nonostante
l’accattivante “advertising” basato su
sviluppo economico, rispetto dell’ambiente,
innovazione tecnologica ecc. Il
meccanismo (o se si preferisce la ricetta)
ha funzionato molto bene negli
ultimi decenni. Si svuota la città storica.
Si trasforma in una locanderia globale.
Gli abitanti che si erano trasferiti
nei condomini della terra ferma - alcuni
dei quali in zone un tempo produttive
– si spostano nella villettopoli che
cresce dove un tempo c’era la campagna.
E fin tanto che ci sarà qualche
brandello di campagna da lottizzare si
può stare tranquilli che non si faranno
poli tecnologici. Non sarà una grande
rinuncia. Non siamo interessati all’innovazione
tecnologica.
Non abbiamo
fatto nulla non solo per risparmiare
terra ma nemmeno per ammodernare
con tecnologie tese al risparmio energetico.
Negli ultimi dieci anni in Italia
l’urbanizzato è quasi ovunque raddoppiato.
Siamo il paese con il più alto
numero di metri quadri residenziali e ci
sono in prospettiva altri milioni di
metri quadri da costruire. Regioni,
Province, Comunità Montane, Aree
Vaste, Comuni, stanno lavorando per
assicurare continuità edilizia senza
determinare obblighi tecnologici tesi al
risparmio energetico.
Vogliamo lasciare la nostra impronta di
moderni, - coniugando sviluppo economico
e qualità della vita, rispetto dell’ambiente
e innovazione, però siamo
attratti dallo spreco monumentale.
Optiamo per il MOSE, l’alta velocità, la
sub lagunare, e restauro della laguna
perché producono investimenti collettivi
e arricchimenti individuali.
Produciamo periferia e villettopoli ma
abbiamo tutti l’illusione di essere diventati
padroni di casa. Ci preoccupiamo
dell’ambiente senza accorgerci dell’entropia
che determiniamo in assenza di
pianificazione. Abbiamo la sensazione
di produrre troppi “piani”; ed è vero. Ma
sono piani che non si coordinano l’uno
con l’altro. Entropia su entropia.
La critica è facile. Del tutto inutile se non
riesce ad incidere. A cambiare le tendenze
in atto. Il nostro Paese è disposto a
coniugare rigore con austerità? Politica
del progetto (anche utopico) e disponibilità
al dubbio? Etica ed estetica?