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Copertina della rivista

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Immagine: Titolo Dimenticare Marghera

Coniugare rispetto dell’ambiente e sviluppo economico, qualità della vita e benessere, innovazione e attenzione alle risorse ambientali” è una bella ricetta che tutti sperano di eseguire prima o poi. La sento ripetere da molti anni. Forse troppi. E da molti posti e per tante zone. Non solo del nord est ma anche del sud ovest. A risorgere per primi dovrebbero essere quei centri dove si è svolta un’intensa attività produttiva. Le aree che formarono la classe operaia, al consolidamento della città, allo sviluppo del capitale privato (spesso in Italia sovvenzionato o sostituito dallo Stato). Contribuirono al miglioramento delle condizioni di vita, fino a sfiorare il benessere. Con un salario fisso. Una casa dignitosamente popolare.





Un mezzo di locomozione sempre più autonomo e veloce. Ci si acculturava. Si lottava per ottenere un titolo di studio per i figli. Ci si batteva per trasformare la città chiusa, spesso ostile, in una città nuova dove l’operaio, nella periferia, avesse gli stessi diritti della borghesia che viveva in zone centrali più pregiate. Negli altiforni di Bagnoli o di Sesto San Giovanni, come nel petrolchimico di Marghera, si entrava ragazzi e si andava in pensione pochi mesi prima di morire. (Quando non si moriva durante il lavoro). Gli ambienti di lavoro, tutti, anche quelli meno stressanti, erano poco salubri. Il riscatto sociale valeva di più della vita stessa.

Lo “sviluppo” aveva nei sindacati e nei sindaci i protettori ad oltranza. Per i sindacati è facile capire il perché della loro presenza organizzativa. Per i sindaci un pò meno. Allargare le zone industriali, espandere la città, costruire pochi servizi, non ha mai contribuito alla salvaguardia dell’ambiente, non ha fatto aumentare il benessere. Lo stesso sviluppo non è stato favorito dalla presenza di queste aree. Tanto le industrie si costruivano sia con un piano regolatore operante e con zone industriali attrezzate, sia senza piano in aperta campagna e senza opere di urbanizzazione. I sindacati sono stati insostituibili nell’affrontare il riscatto culturale ed economico della classe operaia. Non altrettanto nel salvaguardare il territorio. Si dice e si sostiene: guai, per Venezia, se negli anni ’50 e ’60 non ci fosse stata la classe operaia del petrolchimico.

graficaLe contesse di Italia Nostra sono morte come il loro acerrimo nemico, Wladimiro Dorigo. Avevano torto, a parere mio, le une e l’altro. Venezia, la città storica, ha sempre affidato il suo futuro ad una deflagrante contraddizione. “stato de mar e stato de tera”, ieri l’altro. Città d’arte e città industriale, ieri. Conservazione e sviluppo liberista della modernità; MOSE e il restauro della Laguna, oggi. Nel rapporto di Caroline Fletcher (chimica) e Jane da Mosto “tecnologa” (responsabile di CORILA, Consorzio voluto dall’Amministrazione comunale), rapporto dal titolo “La scienza per Venezia”, si afferma che la città più bella del mondo ha i giorni contati. “La frequenza dell’acqua alta è in aumento e oggi Venezia non è in grado di difendersi da un evento catastrofico più di quanto non lo fosse quando subì la grande alluvione del 1966”. Della sua fine ricorrente e dell’acqua alta sempre più frequente, si è parlato tanto fino a creare assuefazione. La questione del “MOSE” ha infuocato opposte fazioni. C’è chi lo ritiene indispensabile e chi invece lo considera un grave danno.

Assorbirà le risorse necessarie per risanare la laguna, per intervenire in modo appropriato con il ripristino delle barene e un insieme di opere tese alla salvaguardia di un ecosistema unico al mondo. Ed è ampiamente il problema.

Adesso i lavori del Mose sono iniziati e in alcune aree lagunari si stanno facendo timide opere di ripristino.

Nonostante i restauri e i nuovi interventi – entrambi da eseguire in modo sperimentale, spiegano le autrici – da aggiustare in corso d’opera, soprattutto il Mose, il futuro resta incerto. La città scende, il mare sale. Confrontando i livelli dell’acqua del XVIII e del XX secolo, emergono clamorose differenze. Basta guardare un particolare della Punta della Dogana disegnato/dipinto da Canaletto, con una foto presa dallo stesso punto di vista. “La pavimentazione è stata rialzata, ma il livello dell’acqua è più alto. L’aumento calcolato è di 70–110 mm in due secoli”. Emergono altre considerazioni inquietanti. Il livello medio del mare potrebbe alzarsi ulteriormente nei prossimi anni. Il costo del MOSE è iperbolico. Alla fine sarà il doppio o il triplo di quello che è stato preventivato.

Gli appalti si sa si gonfiano in corso d’opera, Non si ha la certezza che risolva il problema. In ogni caso bisognerà modificare il progetto dopo l’appalto, e tuttavia – si sostiene – deve essere costruito. Occorre, si insiste, intervenire con tutti i mezzi. Tutti? Bastano quelli economici. Sulla profondità dei principali canali di navigazione, ad esempio, due anni fa si lasciava perdere. Si affermava che i sedimenti dei bassifondi sono portati in sospensione dalle correnti create nei canali profondi (quello dei petroli) dove si ridepositano per essere subito dispersi e sospinti in mare aperto. Interrare i canali, si sottolineava, rallenterebbe la dispersione dell’acqua che entra in laguna durante la marea. Ma non si può. Questi canali sono attraversati da un importante traffico di navi diretto o proveniente da porto Marghera; “il loro sfruttamento commerciale è interesse di molti”.

Alle proteste dei cosiddetti “verdi”, i partigiani del MOSE affermavano che l’interramento dei canali avrebbe scarsa rilevanza rispetto all’acqua alta. Il risanamento della laguna, poi, un’utopia. Il MOSE SI/MOSE NO stato un ping pong politico culturale fino a quando il Governo ha deciso di finanziarlo. A lavori assicurati l’utopia del risanamento della laguna si è rivelata un formidabile nuovo businnes. Forse si riesce a restaurare tutta la laguna sistemando il materiale di scavo, di risulta dalla costruzione del MOSE. E’ l’uovo di colombo. Sistemare adeguatamente la laguna significa trasferire altrove le attività residue di Marghera. In particolare quelle produttive. Così si ottengono altri finanziamenti. “Altro” nel senso di diverso sviluppo dello sviluppo. Non a caso diffuso è il convincimento che un nuovo rinascimento sia alle porte.

O addirittura già iniziato. I finanziamenti pubblici per MOSE e restauro lagunare fanno da lievito ai ricavi privati con la riconversione delle aree dismesse di Marghera.
Marghera può cambiare e diventare una risorsa importantissima, portatrice di sviluppo, di crescita economica, di occupazione di qualità, di eccellenza tecnologica, di innovazione, da mostrare come modello su cui costruire un futuro dove la considerazione dell’uomo e del suo habitat corrono di pari passo con il progresso economico.

Ricomincia la grande illusione. Non più l’industria, lo sviluppo che sporca e che uccide, ma lo sviluppo sostenibile delle nuove e innovative tecnologie.

graficaEliminare il tessuto produttivo che sta alla base della economia di questo territorio significherebbe privarlo della sua più grande risorsa, condannarlo all’impoverimento, alla scomparsa. Le prospettive per il futuro, invece, possono essere ben diverse: un POLO TECNOLOGICO all’avanguardia a livello europeo, capace di attrarre nuova e qualificata occupazione oltre a investimenti per la ricerca, per lo sviluppo di soluzioni innovative esportabili anche in altre realtà e altri contesti. Il polo industriale di Marghera vivrà e cambierà radicalmente volto… finalmente l’Eldorado. Per far questo si deve garantire volontà politica e reperire ingenti risorse finanziarie. Per restaurare e innovare. Per sperimentare e consolidare opposte certezze. Nel corso dei secoli i veneziani hanno sempre avuto attrazione e repulsione per l’acqua.

Nostalgia per la (perduta) supremazia marittima – stato de mar, prima – e fatale propensione per la terraferma. Meno pericolosa e ugualmente redditizia. Stato de mar e de tera, dopo.

Quando i commerci marittimi non rendevano più. Nel XX secolo l’acqua è intesa quale elemento fortemente negativo.

E’ un ostacolo, da superare eliminandola. Tombamento dei canali, isole artificiali, zone industriali, sfollamento verso la terra ferma. Ma è anche una risorsa. Senza acqua dimezzerebbe la sua bellezza (come scrive Iosif Brodskij parafrasando John Rusckin) e in particolare la ricchezza che le procura il turismo, sfruttando anche l’acqua alta.

Ecco allora il restauro delle barene, il ripristino dell’ambiente lagunare e l’anacronistico faraonico (e inutile) MOSE. Il restauro della Fenice e il nuovo Ponte di Calatrava, il ripristino dei fondali del canale dei petroli e il recupero della laguna e il nuovo Polo Tecnologico a Marghera, il nuovo centro direzionale al Tronchetto... e gli appartamenti della città storica trasformati in locanda. Bisogna garantire futuro e passato. Reperire ingenti risorse finanziarie. Fin tanto che l’acqua cesserà di essere un pericolo (perché sarà tutta prosciugata?) e il futuro un lontano ricordo. Lo sviluppo sostenibile di Marghera – nel significato che da polo industriale si trasformerà in polo tecnologico – è già iniziato. E’ ancora modesto. Tutt’altro che innovativo. Solo qualche nuova costruzione che ha sostituito vecchie fabbriche. E’ iniziato questo futuro anche a Bagnoli dove ci si affida alla sostenibilità dell’innovazione tecnologica con lo stesso convincimento e lo stesso coinvolgimento della sua improcrastinabile realizzazione. Poco o nulla si è fatto anche nel sud ovest e poco o nulla si farà. Ovvero non è che a Bagnoli come a Marghera ci sia il blocco delle costruzioni. Ma i poli tecnologici possono attendere. Come il paradiso. Prima bisogna disinquinare. E disinquinare costa. E più costa più aumentano le cubature delle nuove costruzioni.

Come a Milano o a Sesto San Giovanni o a Bagnoli. Ma i centri industriali richiedevano masse di operai. I poli tecnologici invece sono frequentati da un numero limitato di addetti. Ho la sensazione che il meccanismo possa incepparsi nonostante l’accattivante “advertising” basato su sviluppo economico, rispetto dell’ambiente, innovazione tecnologica ecc. Il meccanismo (o se si preferisce la ricetta) ha funzionato molto bene negli ultimi decenni. Si svuota la città storica. Si trasforma in una locanderia globale. Gli abitanti che si erano trasferiti nei condomini della terra ferma - alcuni dei quali in zone un tempo produttive – si spostano nella villettopoli che cresce dove un tempo c’era la campagna. E fin tanto che ci sarà qualche brandello di campagna da lottizzare si può stare tranquilli che non si faranno poli tecnologici. Non sarà una grande rinuncia. Non siamo interessati all’innovazione tecnologica.

Non abbiamo fatto nulla non solo per risparmiare terra ma nemmeno per ammodernare con tecnologie tese al risparmio energetico. Negli ultimi dieci anni in Italia l’urbanizzato è quasi ovunque raddoppiato. Siamo il paese con il più alto numero di metri quadri residenziali e ci sono in prospettiva altri milioni di metri quadri da costruire. Regioni, Province, Comunità Montane, Aree Vaste, Comuni, stanno lavorando per assicurare continuità edilizia senza determinare obblighi tecnologici tesi al risparmio energetico. Vogliamo lasciare la nostra impronta di moderni, - coniugando sviluppo economico e qualità della vita, rispetto dell’ambiente e innovazione, però siamo attratti dallo spreco monumentale. Optiamo per il MOSE, l’alta velocità, la sub lagunare, e restauro della laguna perché producono investimenti collettivi e arricchimenti individuali. Produciamo periferia e villettopoli ma abbiamo tutti l’illusione di essere diventati padroni di casa. Ci preoccupiamo dell’ambiente senza accorgerci dell’entropia che determiniamo in assenza di pianificazione. Abbiamo la sensazione di produrre troppi “piani”; ed è vero. Ma sono piani che non si coordinano l’uno con l’altro. Entropia su entropia. La critica è facile. Del tutto inutile se non riesce ad incidere. A cambiare le tendenze in atto. Il nostro Paese è disposto a coniugare rigore con austerità? Politica del progetto (anche utopico) e disponibilità al dubbio? Etica ed estetica?