La parola all’On.
Guidi, Sottosegretario alla Salute, che in questa
intervista chiarisce obiettivi e impegni del Ministero
sul fronte delle politiche per l’handicap. E sottolinea
che “quando noi valutiamo la disabilità di
una città, di una provincia, di una regione, e
misuriamo quanto a queste persone disabili possiamo dare,
misuriamo anche il livello di salute di un Paese e, allo
stesso tempo, la democrazia”.
On. Guidi, quali sono
le sfide che oggi il sistema sanitario è chiamato
ad affrontare? Su quali fronti il Ministero della Salute
oggi si sta impegnando con più forza?
On.
Antonio Guidi
Innanzitutto, c’è da dire che con tutti gli
sforzi di singole forze politiche, o di singoli esponenti
e tecnici, università, luoghi di interesse sui
temi socio-sanitari, complessivamente, la sfida salute-sanità
in Italia ha marcato un po’ il passo. Noi, promotori
della Legge 833, eravamo in qualche modo anche i promotori
di due grandi vertenze o, meglio, istanze culturali: la
partecipazione dei cittadini e il decentramento territoriale.
La partecipazione dei cittadini era soprattutto legata
alle scelte dirette, come all’interno dei comitati
di gestione dei consultori familiari dove proprio il cittadino
decideva in parte le linee, oppure nei comitati dei centri
di salute mentale, o in altre istituzioni come il Tribunale
per i diritti del malato, che affermava certe istanze.
Politicamente, si è passati prima da un regime
mutualistico ad una gestione (a partire dalle USL) caratterizzata
da scelte che implicavano, per la natura del mandato,
una corresponsabilizzazione degli eletti; quindi una partecipazione
indiretta, ma sempre mediata dagli elettori, perciò
dagli utenti.
Successivamente, questo mandato, in qualche modo popolare,
nella gestione della Salute – Sanità si è
affievolito. Si è inserita la figura del Direttore
Generale che sotto la spinta dell’ottimizzazione
dei servizi, del riordino economico, anche perché
sperperi sicuramente ce n’erano stati, ha in qualche
modo assorbito e purtroppo ridotto, se non in alcuni territori,
questo partecipazione popolare.
Il decentramento invece si sta realizzando con la modifica
del titolo V della Costituzione, tramite un referendum.
Una grossa proiezione regionale quindi, sia sul versante
economico che programmatorio, delle competenze prima dal
Ministero della Sanità oggi dal Ministero della
Salute. A sua volta il sistema delle Regioni, delegando
in parte gli Enti locali, ha ridato corpo a questa nuova
istanza, forse asfittica, della partecipazione popolare,
recuperandola nel principio della sussidiarietà.
Quindi spinte che dal basso vengono recepite al livello
dei comuni, province e regioni e quindi ASL. Siamo ancora
in una fase transitoria, ma è evidente quali saranno
le tre grandi sfide per affermare finalmente questi principi:
in primo luogo, quello di una corresponsabilizzazione
del personale socio-sanitario alle decisioni; poi, una
valorizzazione dei direttore generali, ma sul versante
della gestione della spesa, e non della gestione del comparto
sanitario a tutti i livelli; e infine, a livello di Enti
locali, affermare il principio della diversità
nell’uguaglianza cioè: territorio per territorio
esistono diverse competenze, risorse, patologie, disfunzioni
che vanno valorizzate o ridotte, ma il linguaggio comune
deve essere garantito. Quindi, possiamo dire che in un
determinato territorio, per ragioni le più disparate,
prevale una particolare malattia e perciò bisogna
intervenire, oppure esiste un centro di eccellenza che
può essere punto di riferimento; però non
possiamo dire che un territorio è così forte
da drenare le risorse di territori poveri, o territori
poveri devono languire. Il principio della sussidiarietà
e del decentramento territoriale deve garantire l’universalità,
l’uniformità della salute. Contemporaneamente,
però, l’altro aspetto di cui tenere conto,
siccome si è speso male, è quello della
compatibilità economica. La compatibilità
economica però non vuol dire spendere meno, perché
nessuno lo dice, vuol dire spendere meglio: non considerare
più l’ospedale come centro dove si elabora
la strategia socio – sanitaria, ma l’ultima
ratio efficiente di un percorso che nasce dal medico di
base dai servizi territoriali, dai consultori familiari,
dall’educazione sanitaria in famiglia e nelle scuole,
l’hospital day, servizi anche di chirurgia d’urgenza
dalla mattina alla sera, senza lungodegenza; e anche l’ospedale,
ma come ultima ratio e non come unica realtà che
diventa il centro d’attrazione. L’ospedale
deve diventare un polo d’attrazione, ma non il centro
della Salute.
Queste sono le grandi sfide e i loro contenuti fondamentali
si possono identificare anche nel cambiamento di nome
del Ministero: da Ministero della Sanità, che marcava
il senso di una malattia già in atto, a Ministero
della Salute dove la prevenzione, dal fumo alla terapia
in tempo utile, entra non solo come categoria, ma come
elemento culturale fondamentale.
Come è cambiato nel tempo il concetto di
disabilità e qual è quindi l’approccio
con il quale oggi vengono affrontati i temi dell’handicap?
Sinora, alcuni settori definiti fasce deboli
venivano caratterizzati da nicchie: tossicodipendenza,
disabilità, anziani. Tutte queste nicchie sono
esplose, nel senso che sono diventate molto più
trasversali e dopo ne sottolineeremo l’importanza.
Va detto che l’impegno fondamentale di questo Sottosegretariato
sono gli stili di vita e i Rapporti internazionali attraverso
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché
noi dobbiamo garantire due cose essenziali. Da una parte
indurre a stili di vita meno dannosi, quindi: una maternità
dolce che non provochi handicap per errori; riduzione
dell’infortunistica domiciliare, stradale e lavorativa;
riduzione dell’alcoolismo ed il fumo, che comportano
gravi malattie. Questo è il quadro generale, perché
se noi non facciamo un discorso di sistema di stili di
vita, ma andiamo solo a curare lo stile di vita, sbagliamo
l’approccio sia scientifico che culturale.
Questo però non significa che non ci occupiamo
di settori laddove, al di là degli stili di vita,
esistono già patologie in corso: ci occupiamo dell’Alzheimer
che è fisiologico nell’invecchiamento, e
che aumenta nel numero anche per l’allungamento
della vita media; il problema della Salute coniugata al
femminile dove alcune specificità di genere venivano
un po’ occultate dal principio dell’uguaglianza;
la stessa salute mentale che oggi è esplosa trasversalmente
perché accanto al problema degli adulti ed il superamento
dei manicomi, abbiamo un problema di salute soprattutto
degli adolescenti. Questa adolescenza così poco
conosciuta. E’ stato allo scopo costituito l’”Osservatorio
per la Salute Mentale”, da me presieduto, che si
occupa di patologie purtroppo antiche e sempre nuove,
con nuovi interventi anti-istituzionali, ma si propone
anche di capire cosa è questo mondo così
complesso come l’adolescenza, perché, se
no, si interviene al buio. Inoltre, rispetto alla disabilità,
un altro mondo estremamente complesso, invece di –
e questo è molto importante- parlare solo dell’intervento
sulla patologia disabilitante, dunque la protesi, la riabilitazione,
la terapia familiare, che rimangono punti imprescindibili
sanciti anche dai LEA (i Livelli minimi di assistenza,
che io vorrei non fossero chiamati minimi, ma livelli
utili di intervento, o adeguati), abbiamo costituito la
Commissione Ministeriale sulla “Disabilità
e Salute” (con cui abbiamo voluto anche lessicalmente
ribaltare il vecchio concetto di disabilità), nella
quale, invece di parlare solo di antichi problemi irrisolti,
e di questo ce ne occupiamo, diamo spazio alla salute,
perché anche la persona disabile ha diritto alla
salute e questa va scoperta con tecniche nuove, ma con
una cultura innovativa.
A che punto siamo, in Italia, sul fronte delle pari opportunità
per le persone disabili? Sicuramente in Italia alcuni percorsi come l’integrazione
scolastica, il diritto alla riabilitazione nella fascia
infanzia ed età evolutiva, in parte il diritto
al lavoro e alla partecipazione, l’abbattimento
delle barriere architettoniche, sono un patrimonio culturale
diffuso, anche se solo in parte attuato; e questo può
essere spiegato con una semplice frase: la Legge 104 che
garantirebbe questi diritti è la legge dei “possono”
e non dei “debbono”. Persiste quindi un’alea
discrezionale che, a mio parere andrebbe sempre più
limitata. Però è nella coscienza di tutti
che la persona con disabilità non può più
essere emarginata. Certo, nella valorizzazione delle cose
che non vanno - pure perché lo scoop sul negativo
prevale su tante conquiste anche individuali- c’è
un’atmosfera di negatività. Ciò si
spiega anche con il fatto che, mentre per qualche anno
il percorso di affermazione della qualità di vita
delle persone disabili era in sincronia con la Società,
la stessa Società oggi ha cambiato passo, sta andando
molto più veloce ed è evidente che persone
che hanno problemi mentali, fisici, di adattamento che
richiede più tempo, in questa Società hanno
molte più difficoltà. Allora, sicuramente
la prospettiva scientifica è dell’affermazione
di interventi che garantiscano più autonomia. Questa
Società così complessa tende a rallentare
questa auto-affermazione o etero-affermazione di efficienza
compatibile con la realtà.
Quali sono le azioni che secondo Lei oggi sono più
urgenti, gli ambiti che richiedono un maggiore impegno
da parte di tutti? In coerenza con quanto detto prima “ridare
fiducia a chi la sta perdendo”, non per mancanza
di interventi, ma perché sono interventi tarati
per una certa Società che oggi è cambiata
e quindi anche gli interventi devono essere adeguati,
più coerenti. All’interno di questi, quindi:
una riabilitazione non più legata all’età,
ma ai bisogni; un metodo di valutazione dell’invalidità
che non parte dall’incapacità, ma dalla capacità
residua; protesizzazioni che tengano conto non solo del
recupero dell’arto mancante, ma anche delle straordinarie
possibilità portate dalle nuove tecniche di ingegneria;
affermazione di una casa intelligente che permetta anche
ai disabili che hanno grossi problemi di autonomia, di
affrancarsi dal bisogno delle persone, nel senso che le
persone stesse non devono più essere impegnate
nei servizi a domicilio legati solo ai bisogni primari,
ma anche all’assistenza psicologica e a dare più
respiro alle famiglie.
Questi, ritengo, siano gli interventi fondamentali, ma
a tutto questo si deve legare un problema di ordine generale:
alla globalizzazione (anche) dell’informazione,
non è seguita una globalizzazione della comunicazione.
Tantissime persone disabili ricevono normalmente i servizi
di cui hanno bisogno, ma ciò che ancora manca è
una informazione corretta, data in tempo utile e adeguata
ai bisogni generali e specifici. Pensiamo, per esempio,
a dei genitori il cui bambino nasce disabile, oppure a
un adulto che lo diventa per infortunio o malattia, che
si chiedono: cosa fare, come e dove andare? Oggi è
possibile colmare questa lacuna. E, sempre attraverso
gli stessi sistemi, consentire la possibilità di
comunicazione in rete anche a persone che non hanno la
possibilità di muoversi con facilità.
Dal punto di vista culturale quali obiettivi devono ancora
essere raggiunti?
Per alcuni anni, le persone disabili, le associazioni,
alcuni politici sono intervenuti giustamente per scardinare
anche una cultura contro le diversità, negando
una specificità che poi, in realtà, era
sinonimo di difficoltà. Si diceva: “siamo
tutti uguali” e questa affermazione di diritti-doveri
è fondamentale; ma dire siamo tutti uguali negando
le difficoltà reali, ci ha appiattito l’intervento.
Oggi, come già avuto modo di dire, bisogna rilanciare
la vertenza Disabilità, non negando il diritto-dovere
delle pari opportunità, ma anche chiarendo che
per ogni singola disabilità c’è bisogno
di un intervento, non speciale, normale, ma adeguato ai
reali bisogni della persona con questa disabilità
e della sua famiglia. Corre l’obbligo aggiungere
che oggi il concetto di disabilità è molto
più ampio. Muoiono, per fortuna, meno bambini,
che però rimangono con difficoltà sensoriali-motorie
molto gravi; muoiono meno anziani, essendosi allungata
la vita media, e questo è un bene, ma, allo stesso
tempo, aumentano le patologie disabilitanti; l’infortunistica
stradale, domiciliare e sul lavoro, malattie gravi come
l’AIDS creano vecchie e nuove cronicità,
sinonimo di disabilità. Noi dobbiamo far capire,
quindi, che questa trasversalità non più
di nicchia deve diventare un patrimonio culturale di tutti.
Se posso concludere nel modo in cui mi sono espresso con
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a
Trieste: “quando noi valutiamo la disabilità
di una città, di una provincia, di una regione,
e misuriamo quanto a queste persone disabili possiamo
dare, misuriamo anche il livello di salute di un Paese
e, allo stesso tempo, la democrazia”. Tant’è
che abbiamo coniato lo slogan “Salute uguale Libertà”.
Questo si applica in maniera particolarmente forte su
chi, avendo una disabilità, ha una riduzione potenziale
della libertà, e noi dobbiamo contribuire a restituirgliela.