La criticità principale è di tipo culturale: l’investire in ricerca richiede un atteggiamento di generosa lungimiranza, in quanto si destinano risorse oggi, sottraendole a possibili utilizzi con effetti immediati, in attesa di benefici futuri per le prossime generazioni.
Quando si discute o si scrive sulla
ricerca e sull’innovazione, quasi
all’unanimità si proclama che la ricerca
e l’innovazione sono fondamentali
fattori per lo sviluppo economico e
sociale di una comunità e per il successo
delle imprese e, d’altra parte, si
constata che in Italia le risorse economiche,
pubbliche e private, dedicate
alla ricerca sono scarse, soprattutto se
confrontate con quelle dedicate da altri
paesi.
Per altro, sia l’affermazione
sia la constatazione sono fatte proprie
anche dai massimi organi dell’Unione
Europea.
Evidentemente esiste una contraddizione.
È quindi necessario, innanzitutto,
spiegarne il perché. La
risposta è diversa a seconda che si
tratti dell’operatore pubblico o del
privato. Per quest’ultimo si tratta sia
di decidere se investire in ricerca sia,
per molti, del dove e come farla. Non
desidero qui entrare nel merito delle
problematiche di quelle aziende che
decidono di investire poco in ricerca,
perché la casistica è molto ampia
e bisognerebbe indagare quasi caso
per caso.
Il secondo aspetto - dove e
come - invece chiama direttamente
in causa il ruolo della pubblica amministrazione,
in quanto la scelta
aziendale è fortemente influenzata
dalle condizioni al contorno, cioè da
cosa offre un territorio relativamente
a una serie di fattori che vanno dalle
facilitazioni fiscali, alle infrastrutture,
al livello dei servizi, alla qualità della
vita. Ci si riporta così, per altro verso,
al problema della scarsità di risorse
pubbliche destinate, direttamente e
indirettamente, alla ricerca.
Focalizzandoci invece sul pubblico, a
rischio di semplificare eccessivamente,
la mia risposta sintetica è che alla
prima affermazione, che la ricerca è
fondamentale per lo sviluppo di una
comunità, ci si crede poco o niente
affatto e che semplicemente bisogna
stancamente ripetere lo slogan, per
evitare di essere segnati a dito, ma
niente di più. Se questa ipotesi è corretta,
ne consegue che è urgente comunicare
in forma chiara e credibile
l’assunto iniziale.
Solo mostrando con
esempi concreti, ad esempio prendendo
spunto da altre aree geografiche o
dalla nostra stessa storia, la relazione
di causa ed effetto fra investimenti
in ricerca e innovazione e sviluppo
economico, culturale e sociale, si può
spostare la valutazione di priorità per
l’attribuzione di risorse pubbliche alla
ricerca.
La criticità principale è di
tipo culturale: l’investire in ricerca richiede
un atteggiamento di generosa
lungimiranza, in quanto si destinano
risorse oggi, sottraendole a possibili
utilizzi con effetti immediati, in attesa
di benefici futuri per le prossime
generazioni. Oggi, in larga misura,
sembra prevalere un miope egoismo.
Forse anche perché la tensione al miglioramento
è prevalentemente legata
all’essere giovani e affamati, mentre
noi siamo vecchi e sazi. Può darsi che
sia così, ma si può sempre intervenire
per cambiare atteggiamento. Sarebbe
ora di smettere di lamentarsi e di
avanzare, al contrario, proposte concrete.
La prima proposta è già stata fatta e riguarda
la “campagna di comunicazione”
che, per essere incisiva, non deve
essere noiosa, in quanto l’opinione
pubblica oramai è stata formata ad
accettare prevalentemente comunicazioni
sotto forma di intrattenimento.
È richiesta, quindi, una strategia comunicativa
con il supporto di esperti
di alto livello: non può essere lasciata
agli scienziati, agli studiosi, ai tecnici.
La seconda proposta riguarda l’adozione
di un’efficace strategia pubblica,
a diversi livelli, di cui si nota oggi
una certa debolezza, rispetto a cui voglio
rimarcare tre aspetti.
Il primo riguarda la necessaria differenziazione
di ruoli relativamente
alla tipologia della ricerca. Quando
parliamo di ricerca “di curiosità” (non
applicata), il ruolo pubblico - eventualmente
integrato da fondazioni
private - è fondamentale e insostituibile,
così come accade nel caso di
ricerche anche più focalizzate ma ad
alto rischio, che prevedano un orizzonte
temporale lungo, tale per cui
difficilmente un’impresa, operando su
un mercato concorrenziale, potrebbe
investire. Quando invece la ricerca si
orienta in direzioni meno rischiose e
verso processi di innovazione, il ruolo
pubblico deve essere di sostegno e di
facilitazione. Un caso positivo esemplare,
relativamente a ricerche ad alto
rischio, è quello offerto dalla Regione
Lombardia. Innanzitutto, è stata definita
la priorità di problemi su cui intervenire:
in primo piano la salute, poi
le energie e l’ambiente, quindi l’alimentazione.
Sul primo punto è stato
valutato quale potesse essere il campo
di ricerca più interessante, vuoi come
valore del risultato complessivo in
caso di successo, vuoi come interesse
e validità scientifica.
La decisione fu
quella di concentrare gli sforzi sulla
nano-medicina, in particolare in tre
campi applicativi: oncologico, neurologico
e cardiologico. Tale ricerca
è alla frontiera da un punto di vista
scientifico e, nel caso di successo,
porta a risultati estremamente interessanti
per la prevenzione, diagnosi
e terapia. Quindi è stato svolto uno
studio di fattibilità, per verificare se al
momento esistessero già competenze
e attrezzature di base tali da poter iniziare
questo progetto con un buon livello
di confidenza.
La risposta, positiva,
ha permesso di costituire il CEN
(Centro Europeo di Nanomedicina),
a cui partecipano, ad oggi, quasi tutti
i centri di ricerca lombardi, pubblici
e privati, di elevata qualità in questo
settore, oltre ad aziende private.
Questo è solo un esempio, ma è stato
fatto in quanto mette in evidenza
un modello razionale e ripetibile: la
definizione di priorità di problemi,
un’indagine di prospettive scientifiche
e tecnologiche, la verifica di fattibilità,
infine l’avvio dell’iniziativa,
includendo i finanziamenti. A mio avviso la possibilità di replicazione (e
di miglioramento) di questo schema
è ampia. Potrebbero essere svolti molti
esempi in situazioni diverse e con
ruoli differenti da parte del pubblico.
Un repertorio di casi e l’esemplarità
dei migliori potrebbero essere utili in
generale e sostenere anche la campagna
di comunicazione.
Il secondo fronte sul quale ritengo
che la strategia pubblica possa migliorare
il proprio impatto riguarda un
aspetto molto critico: la formazione. Senza persone adeguate non sono
pensabili né la ricerca né la formazione.
Quest’affermazione è talmente
ovvia che non vale la pena insistere
però, anche in questo caso, all’affermazione
ampiamente condivisa non
si dà seguito operativo. Senza entrare
dettagliatamente sul tema, che richiederebbe
uno spazio molto maggiore
di quanto disponibile, desidero mettere
in evidenza solo due spunti di
riflessione. Da un lato, la necessità di
considerare tutta la filiera formativa e
di non limitarsi agli ultimi livelli di
laurea, dottorato e post-doc, sia perché
il sistema formativo dovrebbe
essere sufficientemente armonico e
organico, sia perché la ricerca e l’innovazione
richiedono una molteplicità
di figure professionali a vari livelli.
Dall’altro, la particolare attenzione
che viene posta sulle conoscenze.
La scuola, a partire dai livelli inferiori,
forma invece anche sui comportamenti,
dalla curiosità alla non
superficialità, dall’accettare anche
doveri e non solo rivendicare diritti,
al merito e all’emulazione. Il comportamento
è altrettanto importante
delle conoscenze e si insegna più con
l’esempio e con la “pratica” che non
con lezioni teoriche. Quanto è curato
questo aspetto? Perché non dedicare
attenzione e verificare, ad esempio, se
e come le riforme che si sono susseguite
man mano, abbiano inciso sia
sul bagaglio conoscitivo sia sul comportamento
dei giovani?
Il terzo aspetto su cui concentrarsi
riguarda infine il problema della capacità
di attrazione di un territorio. In un contesto generale in cui si sono
molto ridotte le barriere alla mobilità,
non solo di informazioni e di flussi
finanziari, ma anche di persone, di
attività operative e di intere aziende,
l’unico soggetto immobile è il territorio.
Allora, per chi lo governa, diventa
indispensabile aumentare la capacità
di attrazione del territorio stesso verso
quelle risorse - persone, industrie,
capitali - che ne permettono lo sviluppo.
Lo studio di quali sono i fattori
che aumentano la capacità di
attrazione per ciascuna delle risorse
critiche e le azioni conseguenti sono,
a mio avviso, fondamentali ma non
ci sono, almeno finora, molte iniziative
al riguardo. Una recente indagine,
relativa alla potenziale attrazione di
aziende ad alta tecnologia, ha portato
risultati interessanti perché, oltre a
fattori facilmente intuibili che vanno
dalle infrastrutture logistiche, alla vicinanza
a università e centri di ricerca
di alto livello, a facilitazioni finanziarie,
semplificazioni burocratiche e
amministrative, alla tempestività del
giudizio civile, alla sicurezza, sono
emersi altri fattori meno evidenti: la
presenza di servizi scolastici e sanitari
di qualità, la vicinanza a centri di
divertimento, di sport, culturali, ed
inoltre l’ambiente, non solo per la
qualità dell’aria e simili ma soprattutto
per la “bellezza”, legata sia alla
natura sia al “costruito”.
Cosa facciamo per valorizzare gli elementi
positivi e per risolvere le criticità
di un territorio?
Le formulazioni di ipotesi sulle cause
dello stato attuale ed alcune proposte
di approfondimento e di intervento
richiedono commenti, critiche e sicuramente
miglioramenti.
Penso però che possano costituire un
utile spunto non solo per discussioni,
ma anche per l’operatività.